La crisi che il mondo sta attraversando è strutturale, riguarda cioè l’intero sistema capitalistico ed è il prodotto di tante crisi: da quella dei dispositivi economici che hanno nella finanza il loro epicentro, alla precarizzazione di massa e alla redistribuzione della ricchezza dal lavoro alla rendita e al profitto; da quella ecologica, che pone sempre più drammaticamente il problema degli effetti sulla nostra vita della devastazione ambientale irreversibile, alla crisi alimentare per tanta parte del pianeta, fino alla crisi energetica e di accesso ai beni comuni come l’acqua.
La crisi attraversa e stravolge tutte le sfere, innanzitutto della democrazia e della libertà. Conseguenza più diretta è una ridefinizione continua dei valori e dell’etica che stanno alla base di ogni ipotesi di società in cui prevalgono individualismo ed egoismo. Ma che cosa significa crisi? Per noi, se le condizioni che ci hanno portato a questa situazione continuassero a essere riprodotte, come è sotto gli occhi di tutti, risulta evidente che essa segnala l’impossibilità di pensare a un mondo più giusto, possibile e vivibile per tutti. Infatti la crisi si muove, acuisce e aumenta i suoi effetti, non è un fenomeno statico, quindi la crisi è sempre il momento delle decisioni.
Per gli apologeti del mercato e del capitalismo, si presenta la possibilità di cancellare qualsiasi tipo di ostacolo sociale all’arricchimento di pochi a scapito della miseria di molti. Come dimostrano le crisi finanziarie, è grazie ad esse, e alle politiche messe in atto dai governi per affrontarle, che il sistema che garantisce enormi quantità di potere e di denaro a banchieri e speculatori non solo non viene messo in discussione nei suoi elementi fondamentali, ma viceversa aumenta rendita finanziaria, profitti e divario sociale. E’ parte di questo processo globale, che tutto riconduce a una dimensione di merce, la progressiva instabilità dell’approvigionamento da petrolio e carbone che può diventare il preteso per un generalizzato ritorno al nucleare e alle guerre come ridefinizione degli assetti internazionali. La natura stessa del capitale e del lavoro, che nel loro rapporto conflittuale definiscono la realtà che viviamo, è stata modificata nel tempo dalle crisi e dai tentativi di uscirne: da un sistema impostato sul profitto si è passati a un nuovo intreccio tra rendita e profitto. Dal tentativo di ridurre il lavoro da specifica attività umana alla condizione di merce tra le merci, alla vita intera messa al lavoro. La crisi dunque, assume significati e utilizzi diversi a seconda di chi la affronta e di come si affronta. Quando si dice che «Marchionne fa la lotta di classe», si afferma esattamente questo: la crisi diventa per la direzione della Fiat l’opportunità di rafforzare il proprio potere, annullando l’altra faccia composta da chi è costretto a lavorare dentro una fabbrica per vivere con un salario che è 400 volte inferiore a chi dirige.
Gli effetti della crisi, quelli che sentiamo sulla pelle da Pomigliano a Melfi, dalle basi petrolifere nel Golfo del Messico alle scuole e alle università senza finanziamenti, dallo smantellamento del welfare alla privatizzazione dell’acqua, sono in realtà il prodotto preciso dell’utilizzo che di essa viene fatto da una parte, quella di chi è ai vertici, delle aziende, dei governi, delle istituzioni europee, delle banche su base locale e globale. La precarietà a cui siamo tutti sottoposti, noi e il pianeta, è il prezzo da pagare alla loro idea di società. In questo quadro è urgente trovare il nostro modo di «utilizzare» la crisi, di immaginare delle vie d’uscita che per essere efficaci, devono non solo permetterci di resistere ma anche di immaginare un’altra società, un altro modello di sviluppo e di consumo, un altro modo di vivere incentrato su valori e diritti capaci di essere rinnovati invece che cancellati. Pochi mesi ci separano dai dieci anni da Genova 2001. Lo «spirito di Genova», quello che ci ha fatto stare insieme allora, tanti e diversi, per «un altro mondo possibile», ritorna oggi a essere indispensabile. Se ci affidassimo solo ai «conflitti» che la crisi oggettivamente provoca, potremmo avere brutte sorprese, anche tragiche: non è detto che essi non diventino guerre fra poveri, razzismo, xenofobia, individualismo. Se non ci ponessimo il problema di «ricomporre» le tante resistenze che nascono dai processi ristrutturativi in atto nella scuola, nell’università e per l’intero ciclo della formazione, nel lavoro di fabbrica e nelle nuove forme del lavoro autonomo, interinale, a chiamata, consegneremmo all’oblio o peggio alla sconfitta ognuna di queste.
Allo stesso modo, se non comprendiamo che la lotta contro la privatizzazione dell’acqua e per i beni comuni ci parla direttamente di un’idea di società, ivi compresa la produzione, non si riuscirà mai a cogliere la profondità di ciò che è in atto, e che appunto non è scomponibile in settori. Come a Genova, dobbiamo essere in grado, e questa è la sfida, di creare un piano comune finalizzato alla piena e buona occupazione, alla validazione democratica delle piattaforme dei contratti per tutte le lavoratrici e i lavoratori, a un reddito di cittadinanza e formativo. L’ecologia non diventi una teoria astratta ma serva a progettare un nuovo modo di produrre e vivere, che il lavoro non venga inteso come un generico valore ma si riempia di concretezza, affrontando di volta in volta le sue condizioni e i suoi esiti sulla vita di chi lo compie e dell’ambiente sociale e naturale che lo circonda. Così come i diritti delle donne, degli uomini e dei bambini migranti non possono essere relegati a «questione umanitaria», poiché la loro cancellazione modifica il concetto stesso di democrazia in cui viviamo. Ricomporre non significa, dunque, fare la sommatoria. Vuol dire invece produrre nuovi paradigmi attorno ai quali creare un immaginario che descriva la nostra idea di società, contrapposta a quella delle classi dominanti. Solo la forza di questo processo di movimento e in movimento, può rende forti e possibili tutte le battaglie che abbiamo di fronte.
Su questi presupposti noi ci sentiamo, al di là di ogni singola appartenenza, di lanciare un appello a tutti perché le prossime importanti mobilitazioni, da quella a Bruxelles il 29 settembre fino alla manifestazione nazionale a Roma indetta dalla Fiom il 16 ottobre, possano essere già una prima, fondamentale, occasione. Proponiamo di lanciare una campagna di mobilitazione che parta dalla presenza a Bruxelles e arrivi fino alla partecipazione collettiva alla manifestazione del 16 ottobre a Roma, considerando quest’ultima come uno spazio in cui diverse forme di aggregazione e lotta e anche singoli individui, dagli studenti ai migranti, dai ricercatori agli ambientalisti, da chi lotta per il diritto alla casa e contro le speculazioni fondiarie a chi si batte contro la crisi climatica, a coloro che vivono lo sfruttamento delle vecchie e nuove forme del lavoro, ai comitati a difesa dei beni comuni fino alle realtà che si mobilitano a difesa dei diritti umani e contro la guerra, possano trovare forza e visibilità uniti. Uniti contro la crisi, essendo la crisi che viviamo frutto delle scelte di chi comanda e anche allo stesso tempo la condizione comune da cui tutti partiamo per costruire qualcosa di diverso, migliore. Crediamo importante darci un nuovo appuntamento, dopo la manifestazione di Roma, per condividere il cammino futuro.
*** Beppe Allegri, Andrea Alzetta, Francesco Brancaccio, Loris Campetti, Luca Casarini, Daniele Codeluppi, Paolo Cognini, Giorgio Cremaschi, Giuseppe De Marzo, Gian Marco de Pieri, Alex Foti, Claudio Franchi, Don Andrea Gallo, Max Gallob, Maurizio Gubiotti, Giulio Marcon, Vilma Mazza, Antonio Musella, Fabrizio Nizzi, Francesco Raparelli, Claudio Riccio, Gianni Rinaldini, Tito Russo, Massimo Serafini, Luca Tornatore, Guido Viale{jcomments on}