Sulle elezioni americane

Ci si concentra sul risultato delle votazioni per la carica di Presidente degli Stati Uniti; bisogna notare che le votazioni hanno riguardato anche il Senato e la Camera dei rappresentanti, oltre a numerosissime assemblee e cariche locali.

Il dato principale è, comunque, il risultato delle votazioni presidenziali.

Trump è finito, il trumpismo gode di buona salute. È questo il dato più significativo dei risultati elettorali: hanno votato quasi 147.000.000 milioni di elettori; Trump è passato dai quasi 63 milioni di voti del 2016 a circa 71 milioni e trecentomila sostenitori oggi. La mobilitazione dei contrari a Trump ha portato alla vittoria Joe Biden con più di 75 milioni e mezzo di voti.

Ma non intendo dibattere delle caratteristiche dei candidati, bensì invitare ad una riflessione sugli elettori, che hanno votato, secondo me, più “contro” che “a favore” del significato delle due candidature.

Ci saranno mutamenti nei rapporti tra gli USA e il resto del mondo, quasi certamente cesserà la ricerca dell’isolamento ricattatorio verso le coalizioni di Stati presenti nel mondo, una diversa disponibilità ai rapporti e agli accordi di cooperazione anziché brutale contrapposizione e ricatto economico e politico. Ma l’affermazione del ruolo di superpotenza non cambierà certo, non c’é nulla di cui gioire per il futuro; i precedenti di Biden, con quarant’anni di politica ad alto livello sulle spalle, non sono certo un inno al socialismo. Del quale, peraltro, ci sono elementi diffusi a livello parlamentare federale e in singoli Stati, di cui sono espressione più nota, anche da noi, Bernie Sanders e la “deputata” Alexandria Octavio Cortez. Interessanti, quanto certamente ignoti all’informazione italiana, sono anche i movimenti dei nativi (“gli indiani”) che chiedono forme di autogoverno delle loro comunità.

Quello che mi colpisce maggiormente, oggi, è la manifestazione di una profonda frattura tra il potere costituito e le classi medio-basse della società americana; la frattura anche geografica tra gli stati delle due coste, atlantica e pacifica, e gli stati del Midwest, squassato dalla crisi economica e sociale, classi medie e basse che seguono chiunque gli dica che “la colpa è di quelli là” chiunque essi siano, diversi da “noi”. Questa considerazione mi porta a notare che, nel nostro ambito, anche in Italia abbiamo gli elementi di una crisi economica e politica, che prescinde dalla goffaggine del suo rappresentante più consistente, Matteo Salvini, per raccogliere la rabbia delle classi più colpite dalla decadenza della ”Azienda Italia”. Senza dare eccessivo credito ai sondaggi, che danno la Lega primo partito in caso di elezioni, ma come quelli americani non hanno dato gran prova di sé, comunque si respira un’aria di disperazione e di rabbia, di ricerca del colpevole, chi sia sia, della perdita di posti di lavoro, di reddito, di servizi, che stanno mettendo in discussione non solamente il livello di benessere, ma la sopravvivenza stessa delle persone e dei gruppi sociali.

A noi comunisti tocca il compito di elaborare proposte ed attuare azioni che riportino le donne e gli uomini oggi dispersi e delusi, dall’abbandono nei sentimenti e slogan sostanzialmente reazionari, alla ricostruzione di uno schieramento di lotta per obiettivi di valorizzazione delle capacità di lavoro e di pensiero, in un ambito basato su parole d’ordine e azioni democratiche, fondate su quanto scritto nella Costituzione nata dalla Resistenza vittoriosa contro gli antenati degli attuali mestatori, sostenitori dell’uomo solo al comando che risolve tutti i problemi.

Paolo Iacchia