Le tonnellate di cibo buttate via dalla distribuzione al dettaglio


L’intervento II rapporto di Last Minute Market è lo specchio di una società incapace di seguire un progetto e di educare:
75.000
Le tonnellate di cibo non scaduto che le organizzazioni di produttori ritirano ogni anno.
 
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4,4%
La percentuale che viene destinata alle famiglie in difficoltà
2.161.312
Le tonnellate dì prodotti buttate via dall’industria
244.252

515 euro
È la spesa delle famiglie che ogni anno finisce nei cassonetti
Sabato a Bologna A sinistra Andrea Segra, preside della facoltà di Agraria dell’università di Bologna e fondatore di Last Minute Market, insieme con Massimo Cirri di Caterpillar al convegno «2010, un anno contro lo spreco» (Mario Carlini/Plp)
di SUSANNA TAMARO
Il 30 ottobre è stato presentato il primo «libro nero sullo spreco alimentare» in Italia. Lo studio è stato condotto da Last minute market, una realtà della facoltà di agraria dell’università di Bologna. Se ci si sofferma un attimo a riflettere, le cifre sono da malore. In agricoltura c’è una dispersione di 17.700.586 tonnellate di cibo, un peso cioè uguale a quello che consuma l’intero Paese in un anno. Le organizzazioni di produttori ritirano ogni anno 75.000 tonnellate di cibo non scaduto e di questa quantità solo il 44% viene usato per chi si trova in stato di bisogno.
 
Il totem
Sarebbe bello che questi alimenti gettati diventassero il totem intorno al quale riunirsi per dire: è ora di cambiare

Dato che una tonnellata equivale a 1.000 chili, in che forma si possono immaginare 17.775.586 tonnellate di frutta e di verdura? L’altezza di un palazzo, di una collina, di una montagna? La prima reazione è di ribellione: per lo spreco, per l’insulto alla miseria, per l’offesa a tutte quelle persone che, in un
mondo così spietato, non riescono ad andare avanti, ma dietro a questo scandalo si nasconde qualcosa di ben più profondo, qualcosa che ci spinge verso un baratro dal quale sarà difficile fare ritorno. Bisogna avere la testa obnubilata dai grafici, dai numeri, dalle teorie per non accorgersi di questo, vuol dire non capire in cosa consista il piantare, far crescere e raccogliere un frutto della terra.
Una volta era tradizione, nelle campagne, piantare un albero alla nascita di un bambino, tradizione che si è trasformata, col tempo, in legge per tutti i comuni d’Italia, legge peraltro raramente osservata. Ma un albero piantato da un addetto del comune è diverso da un albero piantato da un padre, con le sue stesse mani, così come è diverso mettere a dimora un tiglio e un melo. Una volta attecchito, un tiglio prosegue la sua crescita senza ulteriori interventi mentre un melo ha bisogno di contìnue attenzioni: va aiutato, quando è giovane, a stare eretto, poi deve essere concimato, protetto dai nemici, potato con mano sapiente, dissetato nei giorni più caldi. Un melo, insomma, per riuscire a produrre il nostro nutrimento — la mela — ha
bisogno di tanto tempo e di una grande quantità di cure. In un’epoca in cui la frutta—tutta mostruosamente uguale — si compra in vassoi di plastica al supermercato, questo passaggio può sfuggire, così come può sfuggire il significato profondo di questo processo. I frutti della terra, oltre che il lavoro dell’uomo, richiedono anche la sua gratitudine. Da quando l’essere umano, nella notte dei tempi, è diventato agricoltore ha sempre celebrato la terra ringraziandola per i suoi prodotti.
La maggior parte di noi, ormai, non ha molte occasioni di vedere un campo coltivato eppure è sempre e solo la terra a dare i frutti, sempre a lei siamo legati dal rap-
porto di maternità del nutrimento, sono sempre sue le montagne — letterali e non metaforiche — di cibo che schiacciamo con le ruspe.
Ci rendiamo davvero conto delle conseguenze di questo spreco? Non delle conseguenze economiche, ma di quelle che coinvolgono il nostro cuore, il senso più profondo e radicato del nostro esistere. Una società che disprezza i frutti della terra, che ha rotto il progetto della cura, che ha cancellato la gratitudine dai suoi sentimenti, che società può essere? Si possono distruggere montagne di cibo e poi avere dei bravi figli, dei cittadini rispettosi, degli adulti responsabili e compassionevoli? Davvero la no-
stra vita, come ci vuole far credere la post modernità, è fatta di compartimenti stagni, privi di relazioni gli uni con gli altri, oppure ciò che sottende alla vita dell’uomo è il concetto di unità? Ogni azione, anche se non è evidente, prima o poi si ripercuote sulle altre. La gratitudine è scomparsa e il suo posto è stato preso dal demone del risentimento, il risentimento rende irascibili, feriti, avvelenati e, invece di spingerci sulla via della cura e della gratuità, ci conduce sul sentiero contorto della rivendicazione. Ci sentiamo arrabbiati e rivendichiamo. Rivendichiamo perché ci sentiamo delusi. Siamo delusi perché sentiamo che qualcosa ci è stato portato via. Facciamo i conti
e i conti non tornano mai. Una società di risentiti non è più capace di seguire un progetto — che prevede appunto l’attenzione, l’impegno, l’attesa del risultato — e dunque non è più capace di educare. Le montagne di cibo distrutto ogni giorno e i ragazzi che si ubriacano fino a svenire sono due lati della stessa medaglia il mito dell’homo economicus fa il resto. La vita è ragioneria: tutto quello che non rende va eliminato. O consumi o vieni consumato. Una società che risparmia sulla scuola, che si accanisce contro i più deboli, è una società che ha introdotto dentro di sé il seme della barbarie.
Sarebbe bello se l’olocausto di queste montagne di cibo gettato via, da segno di dolore diventasse un segno profetico, un mostruoso totem intorno al quale riunirsi per dire: basta, è ora di cambiare! I milioni di tonnellate di frutta e verdura maciullata e l’uomo ridotto a cosa sono due facce dello stesso problema.
L’uomo ha bisogno di essere riportato al centro della sua complessità, quella complessità che idealmente si manifesta nel cuore. Quel cuore che soffre l’umiliazione dello spreco è lo stesso cuore capace di provare amicizia e compassione, capace di dono e di attenzione, capace di riconoscere la bellezza e di emozionarsi per la sua gratuità. Gratuità! Non si vende, non si compra: non sarà forse questo l’orizzonte verso cui camminare per ritrovare un senso?