Una storia tormentata ma vissuta con passione
di STOJAN SPETIČ (La Rinascita, 2005)
Trieste è stata nel dopoguerra una città al centro di una contesa internazionale, a lungo centro di tensione ai confini della guerra fredda. Ne fanno fede i libri sulla “corsa per Trieste” tra il maresciallo Tito ed il generale Alexander, ma anche la diatriba su chi abbia effettivamente liberato la città nei giorni piovosi tra la fine di aprile e l’inizio di maggio 1945.
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La “vulgata” revisionista più recente insinua che la città sia stata liberata dalle unità militari del Cln insorte il 30 aprile 1945, cui sarebbe seguita nei giorni 1 e 2 maggio l’occupazione militare jugoslava, durata poi per 40 giorni di terrore e stragi, malgrado la massiccia presenza di truppe neozelandesi ed americane, entrate a Trieste dopo i partigiani di Tito.
Non basta dire come andarono le cose veramente. Le vicende storiche vanno capite anche nella loro logica intrinseca. A ciò sono pertanto dedicate queste righe e riflessioni.
E’ vero, il Cln triestino, di cui non facevano parte i comunisti e che aveva rifiutato l’appello del Clnai di collaborare con gli alleati della Resistenza jugoslava, il 30 aprile ’45 liberò dal carcere del Coroneo don Marzari che a meno di cento metri dal comando delle SS da un balcone incitò all’insurrezione contro i tedeschi occupatori.
Volontari del Cln, in gran parte militari della Guardia civica collaborazionista, hanno occupato alcuni palazzi del centro issandovi bandiere italiane, praticamente senza spargimento di sangue.
I tedeschi avevano infatti sgomberato la città da gran parte degli effettivi, concentrandosi in periferia, sul Carso ad Opicina, per fermare l’avanzata dei partigiani del IX Korpus sloveno e della IV Armata dell’Esercito jugoslavo.
I tedeschi volevano garantirsi la ritirata verso il territorio austriaco e, quando capirono che i partigiani puntavano anche su Gorizia e Monfalcone, decisero di barricarsi nel Castello di San Giusto e nel palazzo del tribunale, attendendo gli alleati occidentali per arrendersi.
I comandi militari della Resistenza jugoslava e slovena avevano infatti deciso già nel ’44 il piano di azione per la liberazione di Trieste per la quale prevedevano uno “status” di porto franco all’interno della federazione jugoslava. Piani ovviamente contrastati dal Pci che proponeva di rimandare la questione dei nuovi confini dopo la vittoria comune sul nazifascismo.
Per organizzare l’insurrezione dei lavoratori triestini contro il complesso militare tedesco e fascista la “Osvobodilna fronta” (Fronte di liberazione sloveno) costituì un Comando militare cittadino cui venne dato il compito di raccogliere armi e volontari. Nelle principali aziende triestine – il porto, i cantieri, l’arsenale, la fabbrica macchine – vennero costituiti battaglioni di “Unità operaia” in cui entrarono migliaia di lavoratori italiani, sloveni, croati.
L’ordine di insurrezione venne dato nel momento in cui alla città si stavano avvicinando da nord il IX Korpus dei partigiani sloveni e da sud la IV Armata dell’Esercito jugoslavo. Per capire meglio l’interesse di queste unità militari per Trieste che raggiunsero dopo una lunga marcia forzata, va chiarita la loro composizione ed il loro ruolo storico.
Il IX Korpus, composto da alcune migliaia di partigiani, operava nella zona tra le Alpi Giulie, il Collio goriziano, il Carso triestino. Era composto in gran parte da volontari provenienti dalla Venezia Giulia, Gorizia, Monfalcone e Trieste. Erano sloveni in maggioranza, ma molti erano anche italiani e friulani.
Assieme al IX Korpus combatterono anche i garibaldini friulani che nelle giornate decisive vennero dirottati verso Lubiana che liberarono il 9 maggio. Un episodio che dimostra i rapporti a volte tesi e comunque complessi tra le resistenze italiana e jugoslava, tra Pci e Pcj.
La IV Armata dell’Esercito popolare jugoslavo era invece composta da combattenti croati, ma vi facevano parte anche le “Brigate d’oltremare”. Si trattava di giovani della Venezia Giulia che il fascismo fece confinare in Abruzzo, Sardegna ed altre regioni meridionali per impedirgli di raggiungere le brigate partigiane. Dopo l’armistizio dell’8 settembre ’43 questi giovani a decine di migliaia raggiunsero Gravina e Bari nelle Puglie per essere poi trasportati dagli alleati oltre l’Adriatico verso le isole dalmate.
Inquadrati nell’esercito jugoslavo questi giovani affrontarono i tedeschi e gli ustascia in Bosnia e nella Lika, nelle ultime settimane della guerra liberarono Fiume ed infine Trieste. Molti di loro non “occuparono” Trieste ma semplicemente tornarono a casa loro, nella propria città, nei villaggi di periferia dai quali vennero strappati ancora imberbi.
L’insurrezione dei battaglioni di “Unità operaia” ben presto coinvolse la popolazione dei rioni popolari come Sant’Anna, San Giacomo, Servola, Roiano, Barcola e Rozzol.
Ai combattimenti con le guarnigioni tedesche parteciparono anche volontari con il bracciale del Cln, in particolare al Faro della Vittoria sopra Barcola ed a San Giacomo.
Per il resto le unità del Cln, permeate da sentimenti antislavi più che anticomunisti, ebbero nei confronti dei partigiani jugoslavi atteggiamenti ostili ben ricambiati.
Non fidandosi di un Cln che aveva sempre rifiutato la collaborazione e verso militari che fino a pochi giorni prima vestivano divise di formazioni militari collaborazioniste che avevano giurato fedeltà al Fuhrer ed alla Wehrmacht e che avevano scortato verso i lager in Germania decine di treni carichi di ebrei del Triveneto, i partigiani di Tito li disarmarono intimandogli di rompere le fila e tornarsene a casa.
Ma la battaglia decisiva e più sanguinosa si scatenò ad Opicina, sul Carso, dove i tedeschi concentrarono le loro truppe.
La battaglia durò alcuni giorni. I caduti si contavano a centinaia, forse più di mille. I cadaveri dei soldati tedeschi vennero inumati in una foiba vicina. In seguito i loro resti vennero esumati e seppelliti nel cimitero militare di Costermanno.
Malgrado ciò la foiba vuota continua ad essere considerata monumento nazionale e tappa obbligatoria di visite di presidenti e ministri durante cerimonie commemorative.
Mentre infuriava la battaglia di Opicina, dal Carso scesero verso Trieste le brigate partigiane slovene del IX Korpus guidate da combattenti locali, tra cui mio padre.
Asserragliati nel Tribunale ed al Castello di San Giusto i tedeschi si arresero soltanto il 2 maggio di fronte ad ufficiali dell’Esercito di Tito e delle unità neozelandesi nel frattempo sopraggiunte da Monfalcone, dove si erano incontrate con i partigiani sloveni e friulani.
I primi giorni della liberazione, mentre nelle strade di Trieste si svolgevano manifestazioni a favore della sua annessione alla Jugoslavia di Tito, vennero fermate alcune migliaia di persone, in gran parte presunti fascisti, collaboratori dei tedeschi, membri della famigerata “banda Collotti”, ma anche altri, sospettati di avversare la “soluzione jugoslava” per Trieste. La gran parte tornò a casa dopo formali interrogatori, altri vennero giudicati dal tribunale militare dell’Esercito jugoslavo e giustiziati. Altri ancora vennero avviati nei campi di prigionia nell’interno della ex Provincia di Lubiana.
Alla fine della seconda guerra mondiale, la popolazione triestina fu profondamente lacerata e tali divisioni si riflettevano anche nell’atteggiamento nei confronti delle vicende legate alla sua liberazione. La maggioranza dei lavoratori ed i triestini di lingua slovena accolse i partigiani di Tito come liberatori. Nei rioni popolari e nella periferia vi fu un’aria di festa, mentre la classe media e la piccola borghesia italiana visse la presenza partigiana come occupazione straniera e quindi invisa, da combattere. E già il 5 maggio vi furono nel centro cittadino manifestazioni “per l’Italia” represse con la violenza dai soldati di Tito.
Crebbe la tensione tra i partigiani, il potere popolare da loro instaurato nell’ambito di un progetto di rivoluzione socialista, e gli alleati occidentali. Qualsiasi incidente di una certa gravità rischiava di scatenare una nuova guerra. Così a metà giugno le truppe jugoslave lasciarono Trieste ed il suo immediato circondario.
Gli alleati rimasero altri nove anni, fino alla soluzione concordata del “problema di Trieste”.
Una storia tormentata, complessa, ma vissuta con passione da migliaia di donne e uomini, compagni comunisti italiani, sloveni e friulani, uniti nelle parole d’ordine di “fratellanza” tra i popoli per la quale vale la pena di combattere ancora.