Il loro canto divenne per quasi tutto il “secolo breve” l’inno informale dei comunisti triestini che ancora lo ricordano: “Russia fatale, Russia rivoluzione, al rombo del cannone vogliamo la libertà. Noi bolscevichi, noi bolscevichi di guerra siam sulla nostra terra, vogliamo la libertà.”
Gli anni ’20 furono caratterizzati da aspri scontri di classe, esasperati dal regime di occupazione militare italiana e dalla crescente forza del fascismo di confine. Nell’estate del 1920 le camicie nere distrussero ed incendiarono il Narodni dom ed altre sedi slovene, ma anche sedi socialiste e la redazione del Lavoratore.
In questo clima si svolse il chiarimento politico all’interno del PSI cui l’Internazionale di Lenin propose di espellere i riformisti e cambiare nome in “comunista”. Esso culminò nel Congresso di Livorno quando il 21 gennaio 1921 i delegati comunisti lasciarono la sala e si trasferirono nel teatro San Marco dando vita al Partito comunista d’Italia, sezione italiana della III Internazionale.
Al PCdI aderì la maggioranza degli iscritti della Venezia Giulia. Questi i dati: la mozione comunista ottenne 4462 voti, quella “massimalista” 3286, mentre i riformisti presero solo 30 voti. Particolarmente forte, quasi unanime, fu l’adesione degli iscritti sloveni e croati.
Alle elezioni parlamentari che seguirono, malgrado le violenze ed i brogli fascisti, il PCdI conquistò 20 mila voti ed elesse due deputati: l’emiliano Nicola Bombacci e lo sloveno Jože Srebrnič. Diverse le loro sorti. Il primo tradì aderendo al fascismo, fino a diventare un dirigente della RSI. Finì fucilato dai partigiani ed appeso con Mussolini in Piazzale Loreto. Jože Srebrnič venne incarcerato assieme al socialista Sandro Pertini, poi raggiunse i partigiani sloveni e morì tragicamente annegando mentre tentava di attraversare l’Isonzo in piena.
Il PCdI dette molta attenzione alla “questione nazionale” nella Venezia Giulia, sostenendo le tesi leniniste sull’autodeterminazione dei popoli. Così negli anni ’30 si rafforza e stabilizza l’unità d’azione tra PCdI ed il movimento nazionale rivoluzionario sloveno (TIGR). Lo mise in pratica Pino Tomažič, fucilato nel 1941 al poligono di Opicina assieme ai suoi compagni, condannati dal Tribunale speciale fascista.
Il PCdI ebbe tra i propri dirigenti e funzionari personaggi storici come Vittorio Vidali, Ivan Regent, Anton Ukmar, Maria Bernetič, Luigi Frausin, Luigi Gasparini, Vincenzo Gigante.
Furono dirigenti conosciuti ed apprezzati a livello nazionale ed internazionale. Ukmar fu relatore sul problema nazionale e coloniale al congresso di Colonia, organizzò con Ilio Barontini la resistenza abissina, partecipò alla guerra civile di Spagna, poi fu uno dei comandanti garibaldini che liberarono Genova.
Vittorio Vidali visse da internazionalista, negli USA con la solidarietà a Sacco e Vanzetti al Soccorso rosso ed all’ epopea della guerra civile in Spagna come comandante del 5. Reggimento. .
Maria Bernetič, dirigente nel centro estero di Parigi, fu arrestata ed incarcerata, divenne responsabile per i partigiani italiani al comando della Resistenza slovena. Fu anche la prima parlamentare della minoranza slovena, eletta alla Camera dei deputati nel 1963, assieme a Vidali, confermato al Senato.
I comunisti furono protagonisti della Resistenza nelle nostre terre dove si intrecciarono le sorti degli antifascisti italiani, sloveni e croati, uniti dal vincolo della solidarietà cementato dal sangue versato per la comune liberazione.
Ciò rafforzò i rapporti pacifici ai confini ed il rafforzamento di un’area di pace e di collaborazione.
Attraversando durissime temperie negli anni del dopoguerra, il PCI riuscì a mantenere un forte legame con il mondo del lavoro e fu un baluardo nel contrasto delle trame fasciste ed eversive. Nel Friuli Venezia Giulia fu deciso assertore dei diritti delle minoranze linguistiche, a partire da quella slovena.
Venne proditoriamente sciolto 30 anni fa con una decisione che non solo disarmò la classe operaia, ma distrusse la fitta rete di impegno culturale, creativo, artistico, cooperativo,che costituiva il suo “blocco sociale” di reali alleanze con forze ad esso vicine anche se diverse. La sua grande forza fu la strategia della “via italiana al socialismo” che faceva paura alle classi privilegiate e parassitarie.
Ora ne avremmo avuto bisogno, ma stiamo cercando – anche se in ritardo – di colmare questa lacuna. Il processo di ricostituzione del PCI, della rifondazione delle sue idee forza su basi nuove in un mondo profondamente diverso, fa tremare le vene ai polsi. Ma ne vale la pena.